«Dobbiamo insegnare ai nostri figli maschi che costruire una storia d’amore significa esercitare tre competenze fondamentali: rispetto, responsabilità ed empatia».
Nella nostra riflessione sull'educazione sentimentale, interviene con coraggio il medico e psicoterapeuta dell'età evolutiva, Alberto Pellai. A pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, Pellai sente addosso tutto il dolore del mondo e chiama gli uomini alla rivoluzione. Una rivoluzione gentile.
«Rispetto, responsabilità ed empatia – è l'invito – vanno insegnate ancora prima della non violenza. Perché se apprendi queste tre competenze, la violenza non entrerà mai nella tua vita, il possesso non comparirà mai come bisogno dentro una storia».
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Professore, lei conduce da tempo un lavoro sul maschile. Un approfondimento che è sfociato nei suoi due libri Ragazzo mio. Lettera agli uomini veri di domani (De Agostini) e La vita accade (Mondadori). Sui social ha pubblicato "Lettera a noi padri". Cosa possono fare gli uomini per insegnare ai figli il rifiuto della cultura del possesso, del sopruso e della sopraffazione?
«La paternità dovrebbe diventare quel territorio della vita in cui possiamo mettere in discussione le culture e i ruoli di genere da cui proveniamo. Se riflettiamo onestamente sulla relazione che abbiamo avuto da figli con nostro padre e riconosciamo quello che abbiamo amato e ciò che invece avremmo voluto cambiare, forse possiamo entrare in connessione emotiva con i nostri reali bisogni. La sfida con i figli maschi non è solo insegnare la non violenza, è insegnare loro ad essere “veri” con se stessi».
Che cosa intende?
«Fra gli uomini esiste una sorta di analfabetismo emotivo che si tramanda da generazioni. È arrivato il momento di accorgersi, come sosteneva la acclamata femminista Bell Hooks, che esiste un tempo della vita dei nostri figli maschi, quello dell'adolescenza o della prima adolescenza, in cui la sofferenza, il disagio e la fatica di diventare grandi non vengono mai affrontati né elaborati né risolti. È come se i ragazzi quella sofferenza se la dovessero tenere dentro, al massimo trasformarla in azione».
Esiste ancora nei maschi la paura di manifestare la tenerezza, la fragilità e la frustrazione?
«Nei nostri studi di terapeuti, sono davvero pochi i ragazzi che scelgono di entrare nella stanza delle parole. Le ragazze sono molto più brave a riconoscere il loro bisogno di aiuto. Per gli uomini è come se un passaggio elaborativo degli stati interiori diventasse più un problema che una risorsa; un'ulteriore causa di fragilizzazione invece che un modo per farsene carico in modo competente».
Già nella preadolescenza, accade che i figli maschi si chiudano a riccio, rispondano a monosillabi...
«Lo tzunami degli 11-12 anni necessiterebbe di una maggiore connessione emotiva con i padri. I padri di oggi sono, però, figli di genitori che quasi mai sono riusciti a dire: “Ti voglio bene, figlio mio”. Uomini che non hanno quasi mai saputo parlare di sesso, amore, del corpo che cambia, della pubertà. Eppure questi temi sono di importanza cruciale nella vita di un ragazzo».
Come un padre può entrare in connessione emotiva col figlio?
«Noi padri dobbiamo essere compagni di viaggio che stanno davanti, di fianco e dietro al proprio figlio. Possiamo aiutarlo a non temere la tristezza e a trasformare la paura in coraggio. Educarlo a tenere alto lo sguardo sugli altri e sulla vita, facendo del nostro sguardo uno specchio in cui lui stesso può riflettersi per cercare quell’immagine identitaria che ancora gli appare sfocata e poco definita».
Come vede il rapporto fra ragazze e ragazzi?
«Devono imparare a fare squadra, è importantissimo che dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin abbiano fatto rumore insieme. I maschi, però, non possono sentirsi nemici delle donne. Serve un lavoro costruttivo, non solo difensivo».
Brucia tutto, quindi, non è lo slogan giusto?
«Uomini e donne devono smettere di farsi la guerra. Essere, insieme, costruttori di pace. Anche il linguaggio dovrebbe includere. Fare squadra significa, qualora si intercettasse una fragilità come quella di Lorenzo Turetta, che non penso sia figlio del patriarcato ma vittima di narcisismo, essere in grado di costruirgli intorno una rete di amici per attraversarla».
ALESSANDRA TESTA
giornalista, direttrice responsabile Rivista Etica "Genitori"
Contatti: redazione@bambiniegenitori.it
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